lunedì 24 giugno 2013

L'eredità dell'eroe sofocleo




La concezione moderna del teatro tragico presuppone l’esistenza di un protagonista, identificato come “eroe tragico”, le cui azioni costituiscano il punto focale del dramma. La sua centralità è diventata un aspetto a tal punto imprescindibile dalla nostra idea di tragicità (anche cinematografica: v. le teorie per la sceneggiatura strutturate sull’arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks), così imprescindibile, dicevo, che è difficile per noi immaginare un Amleto senza Amleto. Similmente sintomatici sono anche i titoli eschilei, riferiti più spesso al coro che ad un singolo eroe.

  La sua (ri)valorizzazione risale al rinascimento, italiano e non. La drammaturgia regolare italiana quattrocentesca in primis, recupera in termini moderni i generi drammaturgici dell’antichità e costituisce uno statuto formale, normativo e caratterizzante per ciascun di essi, fondato sui canoni estetici e retorici della classicità greca e latina. Alla base vi è la riscoperta della tragedia senechiana, (il codice dell’Etruscus portato alla luce da Lovato de’ Lovati,) che recupera a sua volta i modelli greci (dati inoltre alle stampe da Manuzio tra il 1502 e il 1518). Quali modelli? Come già accennato, la prospettiva di Eschilo era differente. La presentazione del dilemma tragico in un unico personaggio dominante sembra essere invenzione di Sofocle, tanto che si potrebbe definire “sofoclea” la concezione della tragedia europea che l’ha seguito per millenni e che riconosce nell’Edipo Re il proprio modello principale.

   Sofocle abbandona la forma della trilogia per ridurre il dilemma tragico nei termini di una personalità individuale nel momento di crisi suprema della propria vita. Conseguenza non inevitabile: tant'è che  nell’Ippolito, l’intricato sviluppo dei rapporti dei quattro personaggi conferisce stessa importanza ad ognuno di loro.
  Attraverso la forma della trilogia, in Eschilo emerge la causalità delle azioni umane e la loro connessione col volere degli déi. Il corso della storia fornisce una prospettiva delle sofferenze, mentre i personaggi sono coinvolti in un’azione troppo grande per la loro comprensione e si affidano agli déi. La tragedia sofoclea invece esclude il futuro, al massimo vi allude. In essa non abbiamo mai l’idea della collocazione dell’agire umano lungo il corso delle generazioni passate e future, né del suo rapporto col disegno divino. L’eroe sofocleo agisce in un vuoto terribile, in un isolamento nel tempo e nello spazio. La responsabilità delle proprie azioni ricade sull’eroe stesso: da qui la grandezza degli eroi sofoclei, ma anche l’ironia tragica, tecnica che presuppone l’assoluta inconsapevolezza del proprio destino da parte di un personaggio.
  In questo senso l’eroe tragico diventa colui che, contro gli oppositori e senza aiuto divino, aderisce alla sua natura individuale, alla sua physis, ciecamente, ferocemente, anche fino alla propria distruzione. Sospeso tra i due poli di speranza eschilea e disperazione euripidea, l’universo tragico di Sofocle vede l’uomo capace di agire autonomamente (il coro definisce Antigone αύτόνομος, v.821 ) e di perseguire una gloria indissolubilmente fusa con il dolore e con la propria caduta.  Il suo fallimento coincide con il suo successo, la sua vittoria con la sua sconfitta.
  Nella libertà d’azione con cui un individuo affronta un destino infausto ritroviamo il carattere moderno dell’eroe sofocleo. Esso si trova a scegliere tra una rovina sicura e un compromesso con cui tradirebbe le proprie convinzioni, ma resiste saldamente alla massiccia pressione della società, degli amici e nemici, rifiuta di cedere e rimane fedele alla sua natura.
 
  Bisogna precisare che la concezione greca vedeva l'eroe un hybristés caratterizzato da una profonda ambivalenza pre-morale. Questa concezione eroica ha a sua volta dei fondamenti nel culto religioso degli eroi, che celebrava quegli uomini che, con la tremenda forza della loro personalità, sembravano aver superato in vita le proporzioni della comune umanità. Le cerimonie del culto miravano a placare la loro collera. Nilsson: “Il culto dell’eroe è apotropaico più d’ogni altro; è diretto a placare i morti potenti, che sono assai proclivi all’ira. […] Un eroe viene riconosciuto non in virtù dei servigi resi ma perché da lui promana un potere particolare, che non è necessariamente benefico”.  Il titolo dell’eroe non a “alcun rapporto con le idee morali né con quelle di una superiore religiosità, bensì è espressione del nudo potere, della nuda forza”. L’eroe, perlopiù, non è venerato come modello di condotta, ma offriva agli antichi la certezza che in alcuni individui eletti l’uomo è capace di grandezza sovrumana e sfidare i propri limiti, pur senza uscirne indenne.

Tiziano Portas

Fonti:

Bernard M. Knox, The heroic temper: studies in Sophoclean tragedy, (University of California Press, 1964),

Paolo Bosisio, Teatro dell’occidente, LED Edizioni Universitarie

sopra: Albert Greiner, Louis Bouwmeester (nel ruolo di Edipo)

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